La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9309 del 9 aprile 2025, ha chiarito che, quando un’azienda ereditata viene gestita solo da alcuni coeredi i quali la valorizzano con il proprio lavoro, i frutti dell’attività non possono essere automaticamente considerati da dividere con gli eredi che ne sono rimasti estranei.

Il caso in oggetto riguardava un laboratorio artigianale tipografico che era stato già oggetto di una prima successione alla morte del suo fondatore. Quest’ultimo aveva lasciato la propria attività alla moglie e ai due figli. Il Tribunale di Brindisi, con la sentenza n. 994/2007, passata in giudicato, tra l’altro aveva accertato che tale azienda era stata gestita unicamente dai due figli. Alla morte della madre la terza figlia proponeva domanda innanzi al Tribunale di Brindisi nei confronti dei fratelli per dichiarare l’apertura della successione e per accertare che l’asse ereditario della predetta defunta fosse costituito dai 54/126 del laboratorio tipografico, oltre ad una collezione di francobolli. L’attrice domandava l’attribuzione di una quota, pari a 18/126 della suddetta attività quantificata al momento del giudizio di divisione. I giudici di primo grado dichiaravano dunque aperta la successione e attribuivano ai convenuti la quota di 27/126 ciascuno della quota materna dell’azienda, calcolata, sulla base della CTU, al momento della divisione. Avverso detta sentenza proponevano appello i fratelli, che censuravano la sentenza e deducevano che, a seguito del decesso del padre, avvenuto nel 1976, avevano continuato a gestire la tipografia unitamente alla madre per i primi cinque anni e, successivamente, avevano amministrato l’azienda in via esclusiva, senza alcun apporto della madre e, tanto meno, della sorella. Nel corso di tale periodo avevano innovato e migliorato l’attività del padre e non ritenevano corretto conteggiare nell’asse della madre una quota della tipografia sulla base dei valori di cui alla sentenza n. 994/2007. La Corte d’appello di Lecce accoglieva parzialmente l’appello, riformando la sentenza di primo grado solamente nella parte in cui aveva riconosciuto la rivalutazione sui frutti civili. La Corte d’appello riteneva infatti che la quota dell’azienda fosse da valutare con riferimento al momento della divisione e cioè una quota dell’azienda intesa nella sua consistenza dinamica e non come quota del patrimonio, non essendo peraltro provato che la de cuius fosse rimasta estranea all’esercizio dell’impresa.

Secondo la Corte di Cassazione, rimandando a principi già affermati, l’azienda ereditaria forma oggetto di comunione fin tanto che rimangono presenti gli elementi caratteristici della comunione stessa, e cioè fino a quando i coeredi si limitano a godere in comune l’azienda relitta dal de cuius, negli elementi e con la consistenza in cui essa è caduta nel patrimonio comune. Se invece viene esercitata con fine speculativo dai coeredi, i quali convengono di continuarne l’esercizio apportando nuovi incrementi, sussistono tutti gli elementi della società, sia pure irregolare o di fatto, e la comunione incidentale si trasforma in società tra i coeredi. Se la continuazione dell’esercizio dell’impresa è effettuata solamente da alcuni dei coeredi, allora la comunione incidentale è limitata all’azienda come relitta dal de cuius, mentre il successivo esercizio deve essere imputato ai coeredi predetti che hanno proseguito l’attività.

Leggi l’ordinanza completa della Corte di Cassazione.